Kalòn: La Bellezza come Esperienza e Consapevolezza

Il concetto greco di Kalòn, spesso tradotto con l’italiano “bellezza”, racchiude in sé una molteplicità di significati che vanno ben oltre la semplice percezione estetica. La sua natura evanescente, priva di un referente concreto, ha affascinato l’essere umano per secoli, spingendolo a cercare, in varie forme, di definire un termine che sfugge a ogni definizione definitiva.

Il Kalòn può essere visto sotto molteplici sfaccettature: come un giudizio estetico, che si concentra sull’apparenza e sull’osservazione sensoriale del mondo, oppure come equilibrio, come espressione di un’armonia interiore, una sintesi perfetta tra il mondo esterno e quello interiore. È, in questo senso, una visione duplice che abbraccia sia l’estetica che la filosofia, mettendo in dialogo la bellezza esteriore con quella interiore, quella percepita e quella pensata.

Ma Kalòn non è solo una categoria intellettuale o sensoriale. È, prima di tutto, esperienza. Un’esperienza che coinvolge non solo il mondo esterno, ma anche la nostra interiorità. È attraverso la consapevolezza del sé, nel continuo riflettere sulla propria esistenza e sul proprio posto nell’universo, che si giunge a comprendere la vera essenza del Kalòn. In questo senso, la bellezza non è qualcosa da ammirare passivamente, ma una dimensione da vivere attivamente, come percorso di conoscenza e di consapevolezza.

Il Kalòn, quindi, è profondità interiore. Non si tratta solo di un’osservazione superficiale, ma di un invito alla riflessione organica sul mondo, che porta alla consapevolezza di sé e della propria posizione nell’universo. È un concetto che invita a pensare alla bellezza come un viaggio continuo, che si svolge tra il mondo esterno e l’anima, in un processo di crescita, trasformazione e rivelazione.

BELLO, BELLEZZA Chiedete a un rospo cos’è la bellezza, il bello assoluto, to kalòn. Vi risponderà che è la sua femmina, con i suoi due grossi occhi rotondi sporgenti dalla piccola testa, la gola larga e piatta, il ventre giallo, il dorso bruno. (…). Interrogate il diavolo: vi dirà che la bellezza è un paio di corna, quattro artigli e una coda. Consultate infine i filosofi: vi risponderanno con argomenti senza capo né coda; han bisogno di qualcosa conforme all’archetipo del bello in sé, al kalòn. Assistevo un giorno a una tragedia, seduto accanto a un filosofo. «Quant’è bella!», diceva. «Cosa ci trovate di bello?» domandai. «Il fatto,» rispose, «che l’autore ha raggiunto il suo scopo». L’indomani egli prese una medicina che gli fece bene. «Essa ha raggiunto il suo scopo», gli dissi, «ecco una bella medicina!» Capì che non si può dire che una medicina è bella e che per attribuire a qualcosa il carattere della bellezza bisogna che susciti in noi ammirazione e piacere. Convenne che quella tragedia gli aveva ispirato questi due sentimenti e che in ciò stava il kalòn, il bello. Facemmo un viaggio in Inghilterra: vi si rappresentava la stessa tragedia, perfettamente tradotta, ma qua faceva sbadigliare gli spettatori. «Oh, oh», disse, «il kalòn non è lo stesso per gli inglesi e per i francesi». Concluse, dopo molte riflessioni, che il bello è assai relativo, così come quel che è decente in Giappone è indecente a Roma e quel che è di moda a Parigi non lo è a Pechino; e così si risparmiò la pena di comporre un lungo trattato sul bello.

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